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Tumori dei bambini: la piccola con la flebo che cammina a papera, i ragazzi con la bandana e la professoressa (da sogno) di Oncologia Pediatrica

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Non camminare così che mi sembri una papera è la frase ho sentito, non senza imbarazzo, nel reparto di oncologia pediatrica da una mamma che si rivolgeva a sua figlia, malata di cancro.
La bambina, di appena 2 anni, camminava nel corridoio del reparto trascinandosi un affare pesantissimo con una flebo e una sacca per la chemioterapia. Aveva un occhio bendato a causa della sua malattia e un po’ per la benda, un po’ per la flebo ed un po’ per l’età camminava con i piedini a papera.
Per questo la mamma l’aveva scherzosamente apostrofata ed io mi ero chiesta ma come fa una mamma a scherzare così con una figlia malata di cancro? Mi era sembrata una frase normale, detta da una madre ad una figlia normale. Ed era proprio così. Nel reparto di oncologia pediatrica può accadere anche questo. Che le cose appaino normali. Quando normali non sono (perché non è normale che un bambino si ammali di cancro). Che la malattia diventi normalità.

Per le famiglie dei bambini e dei ragazzi malati di cancro la malattia è, purtroppo, normalità. Perché purtroppo loro, i genitori, i fratelli, le sorelle, le nonne, tutti devono conviverci. Per forza, perché non c’è altra scelta. I genitori ridono con i figli, riprendono i figli, si arrabbiano con i figli. Come se questi fossero normali. E invece sono malati. Mi stupisco ogni volta che assisto a qualche scena come quella appena raccontata. La forza di quella mamma, e di tutte quello che ho conosciuto in ospedale, mi hanno aperto un mondo.
Un mondo fatto di dolore ma anche di speranza, un mondo fatto di solidarietà e di fiducia. Un mondo dove devono imporsi, per forza di cose, necessariamente, la forza e il coraggio.
Io in questo mondo faccio l’insegnante. Non ho scelto io di fare questa professione. È lei che mi ha cercata e mi ha trovata. Da ragazza volevo fare la giornalista. L’ho fatta anche, la giornalista, ma a un certo punto, quando la scuola mi ha trovata ho messo da parte la tastiera del computer e sono passata al registro di classe. La scuola mi ha incontrata un giorno, per caso. Mia madre aveva compilato la domanda per il concorso a cattedra del 1999 e io, pur di non sentirla recriminare, l’avevo distrattamente firmata. Tanto, mi dicevo, figurati se supero il concorso. E invece ce l’ho fatta. La scuola mi aveva trovata: le supplenze, il precariato ed alla fine il ruolo.
Ho incominciato a insegnare pensando di comportarmi come si comportava con me e i miei compagni la nostra insegnante di italiano. Un’insegnante vecchio stampo, severissima ma bravissima, tutta Dante e analisi del testo. Il primo giorno che sono entrata in classe da insegnante, terrorizzata, non ho nemmeno provato a seguire quello che faceva lei con noi. Mi avrebbero azzannato i 32 studenti scatenati che mi ero trovata davanti quella mattina del settembre 2001. E così, giorno dopo giorno ho cercato di entrare in sintonia con loro. Sono anni che cerco di entrare in sintonia con i miei alunni. A volte ci sono riuscita, altre no. Ho avuto molte soddisfazioni in questi anni ma anche delusioni.
Sono stata delusa da alcuni alunni che non hanno dato il giusto valore allo studio e alla cultura. Ho discusso con molte persone, di quelle che pensano che insegnare, poi, tutto sommato, sia un lavoro come tanti altri. Invece sulla mia pelle ho imparato che insegnare è duro, perché i tempi sono cambiati, i ragazzi sono cambiati. Perché conoscere bene la materia non significa automaticamente saperla trasmettere ai ragazzi. Negli ultimi anni ero molto disincantata, stanca. Ma da quando insegno in ospedale, grazie ai miei alunni, ho riscoperto sì il valore dello studio, ma ho ritrovato anche il senso della vita. E vorrei trasmetterlo a tutti quegli studenti che si impigriscono e che hanno smarrito la voglia di conoscere e di apprendere.
A quegli studenti che frequentano la scuola per prendersi il pezzo di carta, il diploma, e non per il gusto di sapere. A quegli studenti che non capiscono come sono fortunati ad avere questa opportunità e, a volte, la buttano via, sprecando l’occasione di diventare uomini e donne con la U e la D maiuscole. Questo libro, però, è per tutte le persone che hanno perso il vero senso della vita, i valori puri e semplici che dovrebbero accompagnarci nel nostro percorso su questa terra. E anche per tutte quelle persone che denigrano la scuola e i professori. È vero la scuola è in crisi, la figura dell’insegnante è in crisi, ma quando c’è qualcosa che funziona bisogna dirlo, anzi bisogna urlarlo. E questo è il mio urlo. Un urlo che spero che arrivi lontano perché io insegno in un posto speciale. Non ho un’aula, non ho un registro, non ho una cattedra con la lavagna. Non ho nemmeno una classe. Non vado a scuola. Insegno all’ospedale. E anche l’ospedale mi ha trovata per caso. Da quando insegno in ospedale la mia vita è cambiata. Perché se è vero che io ho scelto di fare l’insegnante è ancora più vero che sono le mie alunne ed i miei alunni ricoverati a farmi scegliere, ogni giorno, di fare l’insegnante in ospedale.
La prima volta che sono entrata nel reparto di oncologia pediatrica del Policlinico Gemelli è stato un trauma. Mi sono chiesta: “Ma che ci faccio qui dentro? Che devo fare? Insegnare? Non credo che insegnare sia utile, i ragazzi stanno male, devono curarsi – pensavo – figuriamoci se possono ascoltare le mie parole sulla Prima guerra mondiale o su Manzoni”. Questo pensavo mentre mi aggiravo silenziosamente per il corridoio del reparto quasi in punta di piedi sentendo un pugno allo stomaco ogni volta che un bambino piangeva o se vedevo bambini e ragazzi senza capelli. Un bambino ed un ragazzo senza capelli sono un oltraggio, sono un’offesa – pensavo- mentre mi veniva la nausea. E poi un senso di disagio. Un disagio che tutt’ora provo ogni volta che incrocio i loro occhi.
Il reparto di oncologia pediatrica è al decimo piano settore D, percorso arancione. Fuori la porta ci sono dei murales coloratissimi che rappresentano animali. Un koala, una grossa scimmia marrone e poi una giraffa. Mi sembra una giungla. I disegni coloratissimi stridono con quello che c’è scritto vicino alla porta, per l’appunto, “Reparto di Oncologia Pediatrica”. Medici, caposala, infermieri, barellieri, inservienti, tutti sorridono con gentilezza. Credo sia un reparto difficile anche per loro. Non deve essere facile stare a contatto tutti i giorni, notte e giorno, con bambini e ragazzi malati di una malattia che, per me, è impronunciabile.
Ma loro, i custodi della speranza, sono sempre lì, pronti, spesso ridono e scherzano con i piccoli malati e i loro genitori. Il reparto sembra una grande famiglia. Al piano superiore opera l’Agop, l’Associazione dei genitori di oncologia pediatrica. Un’associazione che supporta le famiglie dei piccoli malati. Sullo stesso piano c’è una cucina, una sala giochi molto colorata ed un grande terrazzo dove, spesso, i panni stesi del bucato mi fanno pensare che l’ospedale, per molte famiglie, soprattutto per quelle che non sono di Roma, sia una seconda casa. Una triste, tragica seconda casa dove si conoscono tutti. I genitori diventano amici, si scambiano consigli e pacche sulle spalle. Condividono lo stesso tragico destino e questo fortifica i loro rapporti.
Questa solidarietà dà loro anche una grande forza. Il reparto di oncologia pediatrica è un piccolo microcosmo dove ci si dà una mano. I genitori si consolano e si fanno coraggio a vicenda. Quando qualcuno dei genitori è fuori per un motivo o un altro e deve lasciare il figlio da solo nel reparto c’è sempre un altro genitore che veglia anche su di lui. E allora spesso capita di vedere persone che salgono dal bar con un caffè caldo per tutti. Tutti uniti dal dolore ma anche, e soprattutto, dalla speranza. Si chiede come va la terapia, che cosa ha detto il professore, qual è il risultato della risonanza. Si ride, si gioca con i volontari, con i pagliacci-dottori, ci si scambia i numeri di telefono e gli indirizzi che poi, quando tutto sarà finito, ci si vede e si organizza una grande festa. I genitori del 10 D sono persone speciali. Anche quelli dei bimbi più piccoli che non sono miei alunni, sorridono sempre, offrono un caffè, si confidano. Molte volte si ride. Anche se a volte si piange. E spesso io mi sono anche ritrovata a dover offrire una spalla su cui piangere. E in questo libro, Ragazzi con la bandana è spiegato il perché.


DANIELA DI FIORE

Grazie Daniela, grazie alla straordinaria Rossella Legnaro che sta raccogliendo le storie di questo cicatrici (con hashtag #LeCicatrici), dedicato soprattutto ai bambini e ai ragazzi malati di tumore, ma non solo.
Grazie Daniela del tuo contributo, grazie proprio di esistere, di insegnare lì, di aver scritto “Ragazzi con la bandana” (Infinito edizioni). Compratelo se potete, anche su Amazon, e leggetelo, questo bellissimo diario di un’insegnante particolare (ad avercene di più come te nella scuola…), con alunni molto particolari. Tutti i proventi adranno all’Agop, l’Associazione genitori oncologia pediatrica.
Non rubo altro spazio a gente bellissima come Daniela e Rossella. Solo il tempo di ricordare uno strano incrocio di vita e di post. Ieri, ho scritto Una Notte Gialla da non perdere, contro la leucemia infantile. Con due supereroi che hanno curato anche me, dal mio ictus. Andateci, se potete, oggi e domani, tra altra gente bellissima che combatte proprio contro un tipo di cancro che colpisce i più piccoli. Io non posso esserci sono qui al Salone del libro, reduce dalla presentazione ieri del libro di Nadia Nunzi “Ti amo anima mia” e da un dibattito sulla violenza contro le donne, tra altre donne eccezionali. E, mentre scrivo, penso che se l’orrore è grande nella vita, abbiamo anche la fortuna, a volte, di incrociare persone grandissime e grandiose.
Tipo quelle che, prima di Daniela, abbiamo potuto leggere e ascoltare su questo blog, parlando di #LeCicatrici in questi post:
– Il tumore di Chiara, il mio ictus e (tutte) le cicatrici della vita;
– “I capelli persi, il dolore di una vita, le cicatrici dopo 13 anni di bullismo”;
– “Bullismo: io, vittima, oggi aiuto i bulli a salvarsi”;
– “Cosa mi insegna la mia leucemia”. Melissa, 18 anni, il mio personaggio dell’anno;
“Cancro: la partita più importante, a 15 anni, armata di parrucca e mascherina”.
E ora parola a voi, se volete, su:
– il mio account Twitter DiariodiAdamo (usando se volete l’hashtag #LeCicatrici);
la pagina Facebook del Diario di Adamo;
– i commenti al post, qui sotto;
– il mio profilo Facebook;
– il mio profilo su Google+;
– la mia email
mgamba@condenast.it.


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